Fosse Ardeatine: eterna testimonianza degli orrori delle guerre

Per molti di noi gli orrori della guerra sono un lontano ricordo, per altri un sentito dire soprattutto per la maggior parte dei ragazzi di oggi che la studiano a scuola … ma invece per gli ucraini e russi non è così.

Noi ne seguiamo la situazione attraverso il telegiornale o ascoltando la radio, quindi non riusciamo a renderci conto del dolore, delle paure, delle angosce reali che ti  assalgono, quando tutto ciò a cui tenevi viene distrutto o peggio.

Eppure anche l’Italia ha vissuto momenti drammatici durante l’ultima guerra, e a Roma vi sono luoghi dove il tempo sembra essersi fermato e se uno sa ascoltare, può ancora avvertire attraverso il fruscio dei rami degli alberi il suono delle voci di chi non ce l’ha fatta.

Diversi artisti hanno provato a dar voce all’orrore;  tra questi troviamo Renato Guttuso con il suo neoralismo pittorico che, tra il 1943 e il 1950, dedica ai massacri, alle fucilazioni, alle stragi e più in generale alla crudeltà della guerra moltissime opere pittoriche e scultoree, tra queste ve n’è una  intitolata “Fosse Ardeatine” del 1950, che si trova nel Museo dei cimeli e che rievoca in maniera unica l’ammasso dei corpi dei martiri delle Ardeatine nel momento della prima esumazione.

Oppure basti pensare all’opera “La Liberazione” di Carlo Levi, ispirata come cita il nome stesso alla liberazione finale della città di Roma e dell’Italia dopo un lungo periodo di oppressione e di terrore.

Ma perché è stato commesso l’eccidio?

I partigiani avevano preparato un agguato contro un reparto delle forze di occupazione tedesche  in via Rasella, e fu Rosario Bentivegna che ebbe il compito di portare in posizione il carretto con l’esplosivo, predisponendo la miccia in attesa dell’arrivo dei tedeschi.

La bomba esplose a metà della colonna tedesca. 26 soldati tedeschi del Polizeiregiment Bozen, reclute altoatesine,  morirono all’istante nell’esplosione. Contemporaneamente, altri 3 partigiani attaccano il fondo della colonna lanciando bombe a mano fuggendo via.

La prima reazione dei tedeschi fu di mettere a ferro e fuoco l’intero quartiere, ma alla fine fecero solo un rastrellamento, fermando 250 persone tra i residenti di via Rasella e semplici passanti.

La notizia dell’attacco in via Rasella arriva all’Oberkommando der Wehrmacht, quartier generale del Reich, e Adolf Hitler viene informato. La sua prima reazione è quella di ordinare una rappresaglia “che facesse tremare il mondo” per punire la popolazione di Roma: per ogni SS uccisa devono essere fucilati tra 30 e 50 italiani, ma alla fine il comando tedesco fissa la proporzione di 10 a 1 per la rappresaglia; decidendo inoltre di fucilare i condannati a morte già in carcere. Alla fine della riunione, Kappler viene incaricato della redazione della lista degli italiani da fucilare.

Al tempo stesso Dollmann si reca in Vaticano per incontrare padre Pancrazio Pfeiffer, superiore generale della Società del Divin Salvatore e intermediario tra i tedeschi a Roma e Papa Pio XII, poiché era  convinto che un intervento del Papa avrebbe potuto fermare la rappresaglia tedesca.

Kappler, dopo aver appreso che nella notte le vittime dell’attentato erano arrivate a 33, telefona al commissario di polizia Raffaele Alianello al carcere Regina Coeli, per avere dagli italiani la lista aggiornata scegliendoli fra i “loro” reclusi.

Da quel momento in poi arriveranno i camion a prendere i prigionieri.

Resta solo da definire il luogo in cui compiere l’operazione: avevano bisogno di un’ “ampia camera della morte naturale”; sarà il capitano Erich Kohler a proporre le cave abbandonate poco fuori Roma, sulla via Ardeatina, nei pressi delle catacombe di San Callisto.

I primi prigionieri arrivano nel piazzale delle cave e mentre vengono radunati, Don Pietro Pappagallo, il sacerdote arrestato per la sua attività antifascista, inizia a benedirli. Alle 15.30 di venerdì 24 marzo 1944, l’eccidio ha inizio. Durante l’eccidio Kappler e Priebke si accorgono che sono stati portati alle cave 5 prigionieri in più dei 330 previsti dalla rappresaglia,  “era un errore, ma poiché ormai erano lì…” saranno uccisi insieme agli altri. Alle 20 gli spari erano cessati.

Poi prima di abbandonare le cave i genieri tedeschi minano gli ingressi e li fanno esplodere per sigillare ogni entrata. Come se con quell’ultima azione il misfatto dovesse essere avvolto nell’oblio e dimenticato… “ma così non fu”.

I primi ad avvicinarsi alle Cave Ardeatine, all’indomani del massacro, sono i religiosi che si occupavano delle visite alle catacombe di San Callisto, seguiti da un numero sempre maggiore di romani che riusciranno ad entrare nelle gallerie delle cave scoprendo i corpi delle vittime della strage.

Oggi come un’enorme pietra tombale, il monolite sovrasta i sacelli che ospitano i resti delle vittime dell’eccidio. I sacelli sono 336, poiché uno è dedicato a tutti i martiri d’Italia morti nelle stragi nazifasciste; gli altri sono numerati da 1 a 335, in base all’ordine nel quale i corpi furono ritrovati.

Il mausoleo è stato realizzato dagli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, nonché dagli scultori Mirko Basaldella e Francesco Coccia ed è stato inaugurato nel 1949, nel quarto anniversario della strage.

Questo Mausoleo vuole essere un grande monito contro tutte le atrocità delle guerre e confidando nel loro esempio … nella loro testimonianza silenziosa … sale un coro a voce unica … grido silenzioso ma al tempo stesso assordante:

mai più la guerra! …Senza conversione del cuore non c’è pace ”.

 

 

Alessandra Antonucci

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